L’ambigua identità dello psicopatologo clinico e dell’analista junghiana

(in collaborazione con Bruno Calllieri) in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, 12, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2011

Nel nostro pensiero condiviso nessuno ha il permesso epistemologico di violare concettualmente la libertà del tu, ovvero dell’Uomo come inscindibile unità somato-psichico-relazionale che spesso l’etichetta diagnostica mette a margine, se non addirittura dimentica e/o scinde. Dedurre unicamente il comportamento dell’Altro da leggi prestabilite (secondo un certo cognitivismo), leggere il sintomo sul riconoscimento di modelli combinatori più o meno rigidamente fissati è modalità spesso difensiva che tende ad allontanare la possibilità dell’incontro.

Incontro anche come evento e appello che richiama entrambi all’ascoltarsi ed all’interrogarsi sugli aspetti sincronici; al curante sta il porsi domande: perché questo paziente è arrivato a me? Cosa viene a dire alla mia realtà psichica? Quale mio aspetto si rispecchia nel disturbo nel paziente?

In questa prospettiva, soltanto l’esperienza fenomeno logico-clinica dell’incontro interpersonale è esperienza veramente donatrice di senso, messaggio che sale dall’intima struttura dell’esistenza, che è sempre co-esistenza.

Indubbiamente il trincerarsi dietro l’applicazione dei protocolli – sia nel momento oggettivante della diagnosi sia nella terapia – esime il curante dal mettersi in gioco personalmente.

E qui nuovamente tornano attuali le parole di Jung : “Quanto più il trattamento procederà in modo schematico, tanto più provocherà le resistenze giustificate del paziente, e tanto più dubbia sarà la guarigione. Lo psicoterapeuta si vede quindi costretto, piaccia o no, a prendere in considerazione l’individualità dell’ammalato come fatto essenziale e ad adattare ad essa il suo metodo di cura.” 1962.

L’individualità dell’Altro assume allora ben altra dimensione rispetto alla sola sofferenza o al solo sintomo: è storia e tempo, cultura e presenza e relazione, corpo e silenzio.

Se guardiamo il paziente cercando di cogliere i molteplici e stratificati fili che ne costituiscono la trama potremo cogliere il soggetto nella sua relazione esistenziale irripetibile, nella sua storia interiore , e trovare in esso il presupposto fondamentale per la comprensione clinica.

Abstract

Gli Autori – lo psicopatologo clinico fenomenologicamente orientato e l’analista junghiana – svolgono una riflessione che si aggancia allo spirito del nostro tempo, caratterizzato anche dal fenomeno immersivo della globalizzazione. Un tempo in cui talora l’identità sembra divenire multipla e decentrata. Oggi più che mai, è opportuno integrare nella propria ottica ed in modo intercambiabile le lenti dell’antropologia e dell’etnologia, della psicologia analitica, della fenomenologia e della narratologia e delle neuroscienze, per non trovarsi impreparati di fronte al sintomo che l’Altro ci propone o dietro il quale talora si nasconde. È il nostro anche il tempo in cui sembra aver collettivamente successo un approccio tecnico e spesso tecnicistico: sono di radicale attualità le polemiche e controversie attorno al DSM ed alla derubricazione di varie entità esistenziali e nosologiche. Nel pensiero degli Autori nessuno ha il permesso epistemologico di violare concettualmente la libertà del tu, ovvero dell’Uomo come inscindibile unità somato-psichica-relazionale che spesso l’etichetta diagnostica mette a margine, se non addirittura dimentica e/o scinde. Nell’ottica proposta, l’Altro/paziente è soggetto che va colto nella unicità dell’incontro, nella sua autentica relazionalità, che diviene leggibile in una dimensione interpersonale in cui possa delinearsi il volto dell’Altro. Sul punto gli Autori avviano un riflessione in transito che prende le mosse anche dal pensiero espresso da Heidegger nei Seminari di Zollikon: ovvero che “all’ordine del giorno va posta la radicale necessità che si diano dei medici pensanti, i quali non siano disposti a cedere il campo ai tecnici della scienza.”.