Odissee nello spazio

intervento di Vittorio Giacci al convegno del Centro Studi Psiche Arte e Società dal titolo Ambiente e Psicologia del 13 maggio 2017

Nella Genesi si narra che Dio, in principio,  creò il cielo e la terra,  poi la luce, le stelle, i germogli e tutti gli esseri viventi e vide che “era cosa buona”, poi disse: “Facciamo l’uomo a nostra immagine, conforme alla nostra somiglianza”  perché beneficiasse di tutto ciò a cui aveva dato vita nei giorni precedenti.

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28.09.2016 | Proiezione del film Gradiva di Giorgio Albertazzi

Il Centro Studi Psiche Arte e Società, insieme a Pia Tolomei Albertazzi e Mariangela D’Abbraccio, è lieto di invitarti mercoledì 28 settembre 2016 alle ore 20.30 alla Casa del Cinema in Largo Marcello Mastroianni 1, ROMA, alla proiezione del film

GRADIVA, diretto e interpretato da Giorgio Albertazzi

L’evento – organizzato per onorare e ricordare con nostalgia, affetto ed amicizia il grande artista di teatro, cinema e televisione conosciuto e apprezzato in tutto il mondo – sarà introdotto dallo psicoanalista Amedeo Caruso, amico del Maestro Giorgio Albertazzi, con cui ha realizzato una lunga intervista dal titolo Vie (e) regie dell’inconscio poi pubblicata in volume nel 2014.

Verrà brevemente raccontata la genesi del film del 1970 – che resta la prima trasposizione cinematografica al mondo del saggio sulla Gradiva di Jensen scritto da Freud – e la burrascosa collaborazione tra il regista Giorgio Albertazzi e lo psicoanalista Cesare Musatti, così come è stata raccontata dall’artista a Caruso e integrata da quanto ne scrisse a suo tempo poi lo psicoanalista. Una giovanissima e bellissima Laura Antonelli fu scoperta dal talent scout Albertazzi per ricoprire il ruolo della mitica Gradiva.

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Nelo Risi, un poeta cineasta sensibile a Psiche

In memoria di Nelo Risi, poeta e cineasta pubblichiamo l’intervista che fa parte del libro Regie dell’inconscio. Da allora è nata una sincera e spontanea amicizia con Lui e la moglie Edith – finissima scrittrice e acuta cineasta – che ci ha portato a incontrarci in diverse amabili occasioni. Sia questo un affettuoso omaggio a un vero Maestro di cinema poetico e al raro poeta cinematografico che è stato.

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OniroCineNautica in “Il Sogno crocevia di mondi”

Il sogno crocevia di mondiÈ fresco di stampa OniroCineNautica, il contributo di Amedeo Caruso al libro di Autori Vari Il Sogno crocevia di mondi (Alpes Italia, Roma).

Si tratta di una magica navigazione nei sogni presenti nel cinema, che è già un sogno fabbricato dall’arte umana. Ci si imbarca dal porto archetipico che è I misteri di un’anima di Pabst, passando per due rari e quasi sconosciuti film, uno con Buster Keaton e l’altro con Stan Laurel e Oliver Hardy che ne sono anche i rispettivi registi. Si incontra un film stupendo diretto da Hathaway, Sogno di prigioniero, che Bunuel considerava tra i dieci migliori film del mondo. Ci si imbatte poi nella Donna del ritratto di Fritz Lang, uno dei film più geniali sulla composizione del sogno. Vengono presi in esame film super famosi come Io ti salverò di Hitchcock, ma anche film di nicchia come Musica per i tuoi sogni di Curtiz e Le belle della notte di René Clair. Ai magistrali 8 1/2 di Fellini e Bella di giorno di Bunuel si aggiungono Tre donne di Altman – sul quale l’autore ha conversato e curiosato personalmente con il regista americano – e il quasi mai visto Doppio sogno dei signori X. Una traversata onirica che diventa anche un modo ulteriore per applicarsi alla MediCineTerapia e curare le proprie attitudini al sogno. 24 film tutti da vedere o rivedere per arricchire la propria creatività e la personale filmografia di ogni psicoanalista che si rispetti.

Regie dell’inconscio – Le radici psicoanalitiche del cinema italiano d’autore

Regie dell'inconscio - Le radici psicoanalitiche del cinema italiano d'autore

Amedeo Caruso, psicoanalista e cineamatore, in questo libro indaga sulle radici psicoanalitiche del cinema italiano d’autore. Vengono presi in considerazione registi tricolori che siedono già nell’Olimpo del cinema mondiale come Fellini, Bertolucci, Bellocchio, Dino Risi, ma anche cineasti italici bravissimi e originali. Nel testo viene anche raccontata la querelle tra il regista Faenza e lo psicoanalista Aldo Carotenuto a proposito del film Prendimi l’anima. Quest’opera raccoglie le conversazioni dell’autore con i magnifici sette mostri sacri del cinema italiano che si sono nutriti al seno psicoanalitico: Giorgio Albertazzi; Nelo Risi; Carlo Lizzani; Vittorio De Seta; Fabio Carpi; Giovanna Gagliardo; Roberto Andò. Conclude il volume una simpatica intervista con Simona Argentieri, la regina italiana della critica psicoanalitico-cinematografica.

I Racconti del Cuscino di Peter Greenaway

sul Giornale Storico di Psicologia Dinamica

Con i “Racconti del Cuscino” si inaugura una nuova stagione per il Cinema: possiamo considerarlo il prototipo delle future pellicole e delle pellicole del futuro. Riesce in questa impresa il regista de “I Misteri del Giardino di Compton House” con ardimenti e sperimentazioni paragonabili a quelli del “Napoleon” di Abel Gance (che abbiamo visto restaurato alla Rassegna di Massenzio per i novant’anni del Cinema), ricordando le prove cromatiche di Antonioni per il remake de “L’Aquila a due teste” dal titolo “Il Mistero di Oberwald”, e ancora le costosissime tentazioni e realizzazioni tecnologiche di “One from the Heart” di Coppola che lo hanno portato al fallimento dei suoi Zoetrope Studios.

“Pillow book” è il titolo in inglese (perché così si chiamano nei Paesi di lingua anglosassone i diari personali degli adolescenti ed anche dei più cresciuti) e “Note del Guanciale” si chiama il libro di Sei Shonagon che ha ispirato il film.

Il testo letterario appartiene a quel tipo di letteratura giapponese che si ispira ai quaderni personali e segreti che buona parte delle persone istruite dalle parti del Sol Levante scriveva e continua a scrivere; ne abbiamo già visto la presenza in Tanizaki (“La Chiave”, racconto, poi film di Brass) ma anche dalle parti di Mishima e poi Ozu e ancora Kurosawa.

Se è vero, come dice l’onorevole zia della piccola Nagiko, che nella vita esistono soltanto due grandi piaceri, quello della carne e quello della letteratura, ebbene qui c’è pane per i giusti denti. Forse è per questo che la protagonista unisce perfettamente le due gioie: scrive letteratura sulla carne dei suoi amanti.

Questa giovane modella giapponese, che ha ereditato la passione del tatuaggio fine (calligrafico, artistico) dal padre che è uno scrittore umiliato e offeso (seviziato!) dal suo editore, ordisce la sua trama vendicativa come per un editore meglio non si potrebbe. La sua rivincita è anche duplice quando fra lei e l’editore malvagio si aggiunge un giovane amante di entrambi.

La bravura di Greenaway nell’affrontare un tema così “dermatologico” nonché “anatomopatologico” (ci riferiamo allo scuoiamento dell’amante bisex) consiste nel mantenere la bellezza orientale figurativa ispirata a Utamaro, Hokusai e Hiroshige, tre grandi disegnatori di temi erotici, raggiungendo eleganze estreme e rare precisioni cromatiche, con delicatezze espressive che accompagnano le proiezioni diverse con diversi colori e differenti dimensioni tutto in contemporanea senza che gli occhi si stanchino della voluttà di percorrere velocemente lo schermo dall’alto in basso e da destra a sinistra e poi a sorpresa nel quadrante superiore destro e poi già di lato…

Il film compie un percorso circolare, con ripetizioni e iterazioni sospese tra il didattico e l’ipnotico: ascoltiamo buona letteratura ed assistiamo a raffinato erotismo in questa educazione sentimentale ripescata dal padre del Baby of Macon nelle notti dei guanciali di mille anni fa. Carne, morte, letteratura e al diavolo la psicologia! (N.B.: inteso come: al diavolo spetta la psicologia!)

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in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, 15, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2012 – Estratto

Il mostro di Venezia (ci) colpisce ancora. Appena allagunati vediamo Bad, un polpettone documentario noioso e inutile, confezionato da una stella del cinema statunitense (supernero)americano, Spike Lee, quello di Fai la cosa giusta, per intenderci, ma questa volta l’ha fatta sbagliata. La pellicola è un tormentone di interviste ad amici e collaboratori della compianta rockstar Michael Jackson, ed è insopportabile la pesantezza dei dialoghi, la banalità delle domande, e l’ampollosità lacrimosa delle risposte, tutto un “come era buono, perfezionista, sagace, creativo!”, senza mostrare che qualche spezzone filmato del divo, scelto tra gli insoliti, ma anche insignificanti. Bad, “Cattivo”, è un titolo che si trasforma in giudizio lapidario. Vogliamo credere che Spike Lee sia andato in vacanza, mentre il film si girava da solo malamente. Ci rianima Fill the void (Riempire il vuoto) dell’israeliana Rama Burshtein, che descrive con meticolosa attenzione, e ammirevole eleganza, usi e costumi di ebrei osservanti. È una storia molto, molto tradizionale, lontana mille miglia di pellicola dalle cerimonie yiddish sarcastiche di Woody Allen. In una comunità ortodossa, che sembra uscita dalle due succulente raccolte di racconti Alla corte di mio padre e Altre storie alla corte di mio padre di Isaac Singer, accade un triste evento: una giovane moglie muore, pur dando alla luce il bimbo di cui è gravida. Ma dopo il dolore, dopo una breve sofferenza, bisogna “riempire il vuoto”, e si scatena una sarabanda di intrecci che porteranno la sorella più giovane della morta ad una soluzione che non riveleremo, mentre desideriamo lodare la bravura e la freschezza della stessa interprete Hadas Yaron, che si distingue per la sua recitazione naturale e disinvolta. Vincerà infatti la Coppa Volpi come migliore attrice, ma noi, che l’abbiamo incrociata cinque giorni prima della premiazione, ci eravamo già complimentati con lei, affascinati dalla sua recitazione, e le abbiamo carpito un segreto: la sua mamma è una psicologa! Riportiamo due perle psicologico-religiose di quest’opera: alla famiglia sprofondata nel lutto, il rabbino dice Chi soffre molto è molto vicino a Dio e, sempre per bocca dello stesso, Beato chi riesce a dire una sola parola di verità a Dio! L’ermetico dio del cinema ci conduce presto verso un altro film ebraico, Lullaby for my father di Amos Gitai, un ricordo affettuoso del regista per il padre, architetto del Bauhaus tedesco, sfuggito all’Olocausto, e riapprodato nella Terra Promessa. Si tratta di un film personale e tenero come una ninna-nanna, da cui il titolo. Ma la forza delle parole contenute nella lettera (in apertura del film), che la figlia del regista scrive al padre (il regista), resterà fortemente impressa nella nostra memoria, perché dipinge un ritratto duro, aspro e veritiero della gioventù contemporanea di tutto il mondo, descrivendone liricamente le difficoltà e le incertezze, la crisi di valori e le ansie professionali e occupazionali. Prima di questo lungometraggio viene presentata un’operina (22 minuti) di Liliana Cavani, Clarisse, che si svolge in un convento di suore, intervistate sul ruolo del femminile che prende i voti, e sui massimi sistemi della Chiesa, in modo smaccatamente retorico, dalla stessa regista, ormai lontana, anni Lumière, dall’ispirazione e intensità dei (due!) bellissimi su san Francesco d’Assisi, o Milarepa o I Cannibali, per citare i suoi film molto spirituali, e davvero riusciti. Ma si vede che con le suore il cortometraggio non riesce alle autrici italiane (bruttino era anche Per sempre di Alina Marazzi del 2004, sempre sulle monache, ma di clausura), e Clarisse non è capace di scuotere la nostra anima naturaliter cinematographica; ma essendo la produzione a carico dalla moglie di un certo predicatore catto-televisivo ex-molleggiato, la cosa ci fa temere una sua proiezione in rai e presso famiglie cristiane e luoghi vaticani, con finale distribuzione afilantropica di dvd clan-paolini. Voglio ricordare un amabilissimo documentarietto dell’agnostico Rossellini, quando rivisita i luoghi e i personaggi del suo Francesco, giullare di Dio, che forse le due signore hanno visto (?) svogliatamente, per far tornare la gioia della fede nel cinema. Insomma, la Cavani se la cava male come Spike Lee. Il giorno dopo è il turno di Kitano, che con il suo Outrage Beyond, non aggiunge niente ai suoi precedenti film sugli yakuza, ma riscalda solo una pizza già scongelata e ricongelata, indigesta. Preferiamo i suoi L’estate di Kikujiro e Dolls, che ci hanno ammaliati non troppi film (suoi) fa. Non facendo parte della giuria, ci regaliamo la visione restaurata di un gioiello del cinema, di Joseph Mankiewicz, Il fantasma e Mrs. Muir, del 1947, che è un piccolo capolavoro di interpretazione e dialoghi, tanto da sfidare coraggiosamente gli abissi del più sano sapere psicologico per saggezza, ironia e bellezza. Una triade di attori in stato di grazia, Gene Tierney, Rex Harrison e George Sanders, si miscelano in una storia imprevedibile e fantasiosa. Un film che ci piace pensare sia stato amato anche da Hillman, per la sua forza immaginativa. Dopo le crudeltà di Takeshi “beat” Kitano, siamo pronti alle atrocità di Kim Ki-duk, che vincerà il Leon d’oro, con questo Pietà, ma dobbiamo avvertire i cuori deboli e le anime tenere, che non esiste intrattenimento in questo film, trattandosi di una cruda lezione di anatomia patologica su cadavere, per una matricola di medicina istruttiva e necessaria, ma obbligatoria solo per futuri medici o critici di mestiere. L’amore materno è senza limiti, come è senza pietà la vendetta di un figlio abbandonato per una madre che lo ricerca trent’anni dopo, vuole dirci il regista coreano. Inoltre, in questo lavoro, risulta scottante il tema del denaro, su cui crediamo però che il Bresson de L’argent abbia detto quasi tutto, e perfettamente. Ma non torneremmo a rivederlo, neanche per pietà dello stesso regista, la cui storia personale è invece un compendio di psicopatologie artistico-umane, da studiare e interpretare dagli alienisti, mentre siamo pronti ancora alla re-visione di Bloody Mama di Corman, che tratta all’incirca la stessa faccenda, facendone un trattatello sull’Edipo molto più efficace e godibile, pure violento, ma insuperabile nella sua tessitura da tragedia greca. Se invece volete soffrire accomodatevi, e forse non ve ne pentirete. Sempre più convinti dell’enunciato hillmaniano che il cinema (e la letteratura, naturalmente …ma cos’è il cinema se non letteratura filmata, pagina scritta in sceneggiatura resa visiva?) sia a volte più rapido ed efficace a provocare cambiamenti e riflessioni, di quanto non riescano a far magari ore di analisi, ci consoliamo con un dolce film messicano, No quiero dormir sola, di Natalia Beristain. Questa giovanissima regista racconta del rapporto tra una anziana attrice e la nipote, con un gioco di rispecchiamenti e di ritrovamenti, che le vede litigare e scontrarsi, per poi riconoscersi l’una nell’altra, una senex ed una puella che poi non sono che due profili di un’unica persona, e si integreranno. Sarà mai distribuito in Italia? Ce lo auguriamo. Vedrete però presto sugli schermi, ne siamo certi, un dono serenissimo (come la città che ci ospita) che ci ha fatto Susan Bier, dirigendo Love is all you need, che è una deliziosa ma non superficiale, leggera ma non effimera commedia. L’aver visto tutti i film, un po’ come Mallarmé si vantava a proposito dei libri, ci ha obbligato a ripensare a quanti modelli abbia preso in prestito l’autrice e dunque citabili per questo brillante film, con dialoghi intelligenti ed ironici, e attori tutti perfettamente nelle parti, a cominciare dall’ex 007 Pierce Brosnan, che regge superbamente il paragone con Cary Grant e George Clooney, in film smaglianti del genere, cui strizza l’occhio. E allora, ecco gli archetipi del nostro: Che cosa è successo tra mio padre e tua madre (Avanti! era il titolo originale, molto più giusto e misterioso, mentre quello italiano doveva spiegare già tutto il film ai poveri abitanti dello stivale), sia per la trama che per l’ambientazione, ad Ischia per Billy Wilder, a Sorrento per la regista danese. E ancora Stregata dalla luna, cui ruba sfacciatamente e ripetutamente, la canzone di Dean Martin That’s Amore, ma anche certe atmosfere, e infine Monsoon wedding, per le sorprese matrimoniali. Eppure, nonostante questi sfacciati borseggi, il film è pieno di invenzioni e di simpatia, inclusa la morale dichiarata fin dal titolo (anche questo un furtarello, che mischia soltanto le stesse parole di una celebre canzone dei Beatles), che fa cadere in brodo di giuggiole tutti gli umani, psicoanalisti e pazienti inclusi. Anche questo film è barattabile, hillmanianamente, con circa cinque sedute di psicoterapia. Siamo riusciti a vedere un reperto archeologico di Peter Brook, restaurato, Tell me lies, degli Anni Sessanta, ripreso da uno dei suoi primi spettacoli teatrali, e non vi diciamo bugie se la sua carica pacifista è ancora vigorosa, basta sostituire il Vietnam con le guerre in corso oggi. Concludiamo con la Bella addormentata di Bellocchio, che è insieme uno splendido film politico, bioetico, poetico. È un quadro che va guardato con attenzione e trasporto, perché farà parte dei grandi film italiani di questo secolo, e che potrà raccontare davvero ai nostri figli come eravamo, e come potremmo cambiare, in politica, in bioetica e in amore.

Presenze e assenze divine nel diabolico mondo del cinema: un’occhiata psicoanalitica

in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, 13, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2011 – Estratto

Lo psicoanalista che si occupa di cinema si domanda in tutta umiltà: perchè mi occupo di questo o quest’altro film? Perchè inseguo il tema del “doppio” o del serial-killer nel cinema? I film, come i romanzi, parlano di personaggi che vivono delle storie, qualche volta ispirandosi alla vita, altre volte creando esistenze e situazioni che la realtà stessa non ha ancora conosciuto. Sembra però che non vi sia migliore forza immaginativa di quella che scaturisce e si snoda nella apparente “quotidianità” del vivere. L’arte non trova migliore fonte di ispirazione che dalla vita, cucinata però con quel tocco personale che può trasformare ogni individuo in un essere creativo. È forse lo psicoanalista un critico cinematografico? Sì e no. Lo è nella stessa misura in cui un critico cinematografico è un po’ psicoanalista quando usa griglie del nostro mestiere per parlare di cinema. (Penso alla vena poliedrica di Guido Aristarco ed al suo saggio strepitoso su Sussurri e Grida di Bergman letto in chiave junghiana). È pacifico però che nessuno dei due si sognerà di rubare il mestiere all’altro. Ecco perchè, se vogliamo fare psicoanalisi ci rechiamo da uno psicoterapeuta, se vogliamo critica filmica acquistiamo riviste specializzate, recensioni presenti ormai su tutte le testate giornalistiche o ci rechiamo alle loro conferenze, e magari ai festival. Naturalmente gli appassionati e gli studiosi di cinema non cercano soltanto chiavi di lettura psicoanalitiche per capire, apprezzare o giudicare i film. Al contrario gli esperti dell’inconscio ed i cultori della “materia” psichica sono maggiormente intrigati dai significati reconditi o simbolici che appaiono nei film, curiosi come sono di scoprire meglio l’animo umano, con un intento che ci piace definire decisamente terapeutico. È storia nota, fin dai tempi di Freud, che l’analista si avvicina ad un’opera d’arte con lo scopo precipuo di rinvenire reperti che possano aiutarlo nel suo lavoro, con i suoi pazienti e con se stesso: come fruitore di un piacere estetico, ma anche come distributore e consigliere di film che aiutano a guarire ed a vivere. Se Wim Wenders ha scritto che il rock ha salvato la sua vita, credo sinceramente di poter affermare che il cinema ha contribuito e contribuisce a salvare molte vite anche per merito della recente scoperta della filmterapia, compresa la mia, salvata inizialmente dalla psicoanalisi, vissuta sempre come una entusiasmante avventura cinematografica. Ecco un’altra possibile definizione della filmterapia: prendere visione di tematiche specifiche affrontate da diversi artisti, con il desiderio e l’impegno di arricchire le proprie vedute. Con questa necessaria premessa mi occuperò “con occhio professionale”, di demoni e dei nel cinema.

Abstract

L’autore Amedeo Caruso, medico psicoterapeuta esperto di filmterapia e di bioetica, prende in esame quelli che secondo lui sono tra i più importanti film a carattere divino e diabolico cominciando da maestri quali Bergman, Bresson, Buñuel, Dreyer, Capra, Lubitch, Carné, per arrivare ai contemporanei Wenders, Besson, Beauvois, Groning, fino a Lars von Trier, alla cui pellicola dedica il discorso più lungo, perché perfetta e giusta per un lavoro psicoanalitico e filmterapeutico. In questo articolo vengono precisati i limiti dello psicoanalista rispetto al critico cinematografico, ma c’è una strizzata d’occhi psicoanalitica per ogni pellicola esaminata.

La morte al lavoro: accostamenti psicoanalitici alla tanatologia cinematografica

in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, 10, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2010

Torniamo indietro nel tempo incontro a uno dei film più intensi e memorabili della storia del Cinema: Il settimo sigillo di Ingmar Bergman, del 1956. Ho rivisto intenzionalmente il film in occasione di questa disquisizione psico-cine-tanatologica, e ho capito perché, con sorpresa e soddisfazione dello stesso regista svedese, il film “attraversò il mondo come un incendio”. Ispirato a Pittura su legno, atto unico dello stesso Bergman, fu girato con poche risorse in appena cinque settimane, quasi interamente in studio con minime riprese all’esterno. Quest’opera rimane un capolavoro perché nella sua intensità scarna ed essenziale riesce a rappresentare, in un bianco e nero nitido e significativo, l’incontro dell’Uomo con la Morte – e tutta l’angoscia umana relativa alla fine – e per la prima volta assistiamo a una lotta giocata sulla scacchiera (la morte pesca il colore nero e il cavaliere commenta che le si addice) ma che si basa su un rapporto dialettico sui massimi sistemi del vivere e morire, che nessun regista era mai riuscito a mettere in scena in modo così magistrale. Reduce dalle crociate insieme al suo scudiero (che ricorda un Sancho Panza o un Leporello, in bilico tra l’umorismo della spalla di Don Chisciotte e il cinismo del servo di Don Giovanni), il difensore della cristianità, che ha sulla coscienza l’uccisione di chissà quanti infedeli in nome del Santo Sepolcro, è pervaso dalla straziante ferita del dubbio, che lo spinge a pregare con la disperazione di chi sta perdendo la fede. Così ingaggia questa partita con la Morte per dimostrare, quantomeno a se stesso, che non può essere soltanto una sua vittima, ma anche un difensore della Vita intesa come puro amore per tutte le espressioni del creato. Nei vari incontri a scacchi Bergman riesce a fare esprimere al Cavaliere tutto il suo dolore e tutta l’angoscia per un mondo che anela al divino, ma ne sente tragicamente l’assenza. Insieme al suo scudiero deplorano inermi la messa al rogo di una presunta strega. Il tempo stringe, ma sebbene la Morte vincerà con uno scacco al re, il protagonista indimenticabile di questo film riuscirà a ingannarla consentendo all’unica coppia giovane della brigata – che si è venuta a formare lentamente durante il ritorno a casa e che è tutta condannata a morire – insieme al figlioletto di fuggire e sfuggire alla morsa della Padrona delle Tenebre. Questo è il modo in cui l’insuperabile talento di Bergman chiude i conti con l’Esecutore Ufficiale della Fine Umana: alla domanda del Cavaliere se sappia qualcosa di Dio le fa rispondere che a Lei non interessa sapere, ma che ciò che deve fare è soltanto portare a termine il suo compito. Lo spettatore viene lasciato in bilico tra la pietà per il dolore umano, spesso assurdo e incomprensibile e il desiderio di dare un assenso alla verità divina, sospeso tra il coraggio e la forza di chi si sente perduto e abbandonato nell’universo da un Dio muto e crede soprattutto nel futuro dell’uomo (come sembra propendere il regista con il messaggio di speranza espresso nella salvezza della coppia di attori – l’arte insomma) e l’atto di fede di chi si lascia andare, disarmato dalla ragione, alla fede e alla Divina Provvidenza. Ingmar Bergman coesiste in entrambe le figure e ci dimostra che ciascuno di noi vive sempre nel contrasto e nel dubbio, che sono gli unici valori che possono aiutarci a vivere coscientemente.

Dopo la morte di Bergman (che incontrò e affrontò la morte in compagnia di Antonioni il 30 luglio 2007) il regista tedesco Wim Wenders ha realizzato un film che ripropone oltre cinquant’anni dopo un nuovo incontro dell’Uomo con la Morte cominciato nel Settimo Sigillo. Nel film Palermo shooting del 2008 l’ultima mezz’ora (a nostro parere la più bella e drammatica nonché la più incisiva di tutta la pellicola) l’autore fa impersonare la Regina della Notte Eterna da un perfetto Dennis Hopper che sembra completare dopo mezzo secolo il discorso iniziato ne Il settimo sigillo di Bergman. Wenders riesce a dare un senso compiuto, quasi fraterno e cameratesco all’ignaro oscuro Padrone del Mondo Infero con un dialogo che riportiamo nei passi più significativi: La morte è un freccia dal futuro che vola verso di te. Un amico, una guida, il guardiano del tempo. Non c’è nessuna uscita, non c’è uscita dall’uscita, sono io l’uscita. Io sono dentro di te lo sai. Perché hai tanta paura? Non sostenevi di aver perso ogni paura della morte? (…) È soltanto un passaggio, io sono la tua uscita, devi passare attraverso di me, lo fanno tutti. Non chiamare felice un uomo finché non è morto…

Abstract

In questo articolo l’autore Amedeo Caruso sceglie un insieme di film di vari registi cinematografici italiani e stranieri che nelle loro opere hanno toccato con particolare sensibilità e profondità il tema della morte. Da Bergman ad Antonioni, da Fellini a Truffaut con l’inclusione di un film di Mike Nichols mai proiettato nelle sale in Italia e di qualche altra rara perla o dimenticato gioiello della cultura di celluloide, Caruso adopera il suo occhio psicoanalitico per scandagliare i migliori fotogrammi tanatologici inseriti nei film di questi autori.

Il mediatico consiglio del medianico coniglio (una capsula di medi-cine-terapia)

in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, 4, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2007 – Estratto

L’intento del mio neologismo medi-cine-terapia è quello di combinare – lacaniamente se volete – l’effetto mediatico (e dunque anche del godimento) insieme a quello terapeutico della visione filmica.

Film come medicine, compresse effervescenti ipnotiche che si sciolgono in non più di un paio di ore, farmaci psicologici quasi senza effetti collaterali e privi al 99% di controindicazioni. La pillola che vorrei suggerirvi quest’oggi è una lezione cinematografica a proposito della comunicazione. Sono certo che il pubblico nato intorno agli anni ’50 del secolo scorso avrà senz’altro visto questo film. Per tutti i più giovani mi auguro che questa occasione sia propizia per prendere visione del film in questione, reperibile per un pugno di euro in dvd. Onestamente non so dirvi quanto un film possa essere terapeutico senza una sana, autentica psicoterapia svolta insieme ad un altro essere umano. Personalmente credo che migliaia di buoni film “terapeutici” non valgano il confronto dialettico analista-paziente. Sono però convinto che una psicoterapia nella quale sia presente la prescrizione di film aderenti alle tematiche conflittuali del cliente, come a volte mi capita di fare con i miei pazienti, consegnando loro un film di complemento alla terapia, un contorno extra insomma, non guasti ed anzi contribuisca a sviluppare ed arricchire il nostro lavoro.

Fatte queste premesse non mi resta che raccontarvi per sommi capi la trama. Il film in questione s’intitola Harvey, è stato scritto dal premio Pulitzer Mary Chase e diretto dal regista Henry Koster nel 1950.

Il protagonista si chiama Elwood P. Dowd ed è interpretato da James Stewart. Mister E. P. Dowd è l’unico a vedere Harvey, un coniglio bianco alto quasi 2 metri, del quale è compagno inseparabile. Questa stranezza lo rende inviso a tutti i benpensanti, a cominciare dalla sorella e dalla figlia di questa, che occupano però la casa di proprietà del fratello e zio che ha ereditato tutto dalla madre.

Questa dolce, innocua follia spinge le due megere a far rinchiudere il povero Elwood in un manicomio con l’intenzione di fargli praticare dei farmaci per “curare” questa allucinazione.

La ragione per cui ho scelto questo film come argomento della mia breve conferenza all’ottavo convegno del Centro Studi sulla comunicazione consiste nella mia convinzione che in questa storia c’è molto da imparare sulla psicologia della comunicazione. Credo che la pellicola rappresenti una salutare pillola da assumere per riconsiderare il nostro comportamento nel mondo.

Per fare in modo che la pillola della medi-cine-terapia funzioni, bisogna che facciamo entrare dentro di noi i personaggi del film, a cominciare da quello principale interpretato da James Stewart.

Vediamo allora chi è il candido giovanotto che parla al coniglio invisibile a tutti, tranne che a lui. Mr. Elwood sembra che non abbia alcun lavoro tranne quello di andare in giro con il suo compare dalle lunghe orecchie, recandosi di preferenza nei bar dove trascorrono la maggior parte del tempo bevendo Martini cocktails.

Un’altra attività di Mr. Elwood è quella di dare retta a chiunque e di interessarsi con affetto ai problemi e alla vita degli altri, con particolari preferenze verso i barboni, le persone semplici ed anche ex- galeotti.

Si profila quindi il ritratto di un esperto della comunicazione, che grazie all’amicizia con il fantomatico coniglio riesce a stabilire contatti pregnanti con gli esseri umani mediante vari escamotages vincenti: la dolcezza, l’assenza di malizia, la generosità (quest’ultima intesa sia in senso economico che come donazione di sé). E infatti alla fetta di umanità più sofferente prediletta da Elwood la stramberia del coniglio risulta molto più facile da gestire e accettare. Non accade lo stesso invece per la sorella e sopratutto per la nipote le quali temono l’emarginazione da parte della borghesia che frequentano a causa di questo “zio indegno” (il riferimento ad un’altra giuggiola di medi-cine-terapia, il film omonimo di Franco Brusati, del 1989 è puramente voluta).

C’è un particolare che a me sembra di enorme importanza nel modo di fare di Elwood: a qualunque persona egli incontri, dal postino al tassista, dall’infermiere del manicomio allo psichiatra, fino ad un occasionale avventore del bar, egli consegna gentilmente il suo biglietto da visita, che viene quasi sempre respinto o accettato con bonaria sufficienza.

I tentativi di comunicazione del tenero amico del coniglio sono dunque frustrati e spesso rifiutati, finchè non vengono capiti nella loro intima e profonda sostanza, come accade alla moglie del primario della clinica che rimane stregata dal comportamento angelico dell’uomo che vede e parla al coniglio, ma che sa sopratutto parlare agli uomini con l’esperanto dell’amore, dell’accettazione dell’altro e dell’accoglimento del diverso, specie se sofferente. Ma non è questa in fondo una metafora di un buon lavoro psicoanalitico? Quest’uomo non riesce a sopportare troppa realtà, come l’uccello di T. S. Eliot (Via, via – disse l’uccello – il genere umano non può sopportare troppa realtà, Quattro Quartetti, I). Ma in questa vicenda cinematografica oltre che il poeta inglese viene tirato in ballo anche un poeta irlandese, W. B. Yeats, per la sua passione verso gli spiriti e i folletti. Infatti a un certo punto del film Stewart definisce chiaramente Harvey come un pooka, che è un nome celtico mitologico, riferito a spiriti buoni sotto forma animale, sempre molto grandi che appaiono in luoghi diversi di tanto in tanto, ora all’uno ora all’altro umano; sono creature maliziose ma benigne, amantissime del bere e dei pazzi.

Lentamente in questa deliziosa commedia degli equivoci, non si capisce più chi siano i pazzi perché ciascuno esprime la propria follia personale. Capita quindi che la sorella sia rinchiusa nel manicomio perché appare ai medici più squinternata del fratello, che viene lasciato libero. Così potrà invitare tutti da Charlie, il suo bar abituale, compreso il guardiano del manicomio non prima di averlo munito della sua carta da visita ed essersi attardato e complimentato con lui per l’invenzione del cancello semiautomatico del manicomio. Comprendere, amare, significa comunicare. Non esiste comprensione laddove non esiste comunicazione.

Abstract

L’autore dell’articolo (un esperto di “medi-cine-terapia” e appassionato di “film che curano”) propone una visone cinematografica “terapeutica” utilizzando un vecchio film, “Harvey”, del 1950. Questo film – propone l’autore – potrebbe aiutarci, come un buon farmaco, a migliorare le nostre capacità psicologico-comunicative. Il protagonista, interpretato da un James Stewart in stato di grazia, è unico a vedere un grande coniglio bianco e questa stranezza lo porta in manicomio per mano di una sorella e una nipote perbeniste. Grazie a questo animale, però. Ogni personaggio della vicenda – incluso lo spettatore – imparerà una lezione d’amore.