Canta che ti passa…

di Maria Teresa Cutrone

Quali sono le strategie che abbiamo escogitato per reagire alla pandemia e alla reclusione forzata? Ognuno ha trovato la sua strada: dedicarsi a buone letture, vedere film mai visti, preparare leccornie in cucina, mettere in ordine armadi e cassetti, ascoltare musica, suonare o cantare.

Preparare leccornie e dedicarmi alla musica sono le mie attività preferite, e sono quelle che hanno avuto più successo, in una sorta di contagio collettivo, un tam-tam che si trasmette attraverso i social media.

Il canto, questa forma d’espressione musicale primigenia che la razza umana ha scoperto da tempi immemorabili, ben prima che l’uomo imparasse ad articolare un linguaggio, serviva ad imitare i suoni della Natura e confondersi con essa, ad allontanare gli spiriti maligni, a celebrare le divinità, ad accompagnare danze di corteggiamento. Questa espressione meravigliosa di creatività, emozioni e sentimenti, esercita un potere taumaturgico sulla psiche dell’uomo.

La forza del canto è dimostrata dal mito di Orfeo, ce lo racconta Ovidio nel X libro delle Metamorfosi. Con la sua musica, Orfeo riuscì ad ammaliare gli dei dell’Averno, convincendoli a restituirgli l’amatissima Euridice, morsa da un serpente e morta nel giorno delle nozze. Con il suo canto accompagnato dalla lira, fece riaffiorare in Proserpina dolci ricordi della vita terrena, prima che Ade la rapisse.

Arione, inventore del ditirambo secondo Erodoto, è il protagonista di un altro mito che testimonia il potere soprannaturale della musica. Era molto abile nel suonare la lira, e divenne ricco grazie alla sua arte. Si salvò dalla morte, a cui l’avevano condannato i pirati, in groppa ai delfini che erano stati attirati dal suo canto.

Anche Anfione era celebrato come musico e cantore: costruì le mura della città di Tebe facendo muovere spontaneamente le pietre al suono della sua lira. Il mito di Anfione vuole simboleggiare la prevalenza dell’intelligenza colta sulla forza fisica bruta. Una volta completate le mura, furono aperte sette porte come sette erano le corde della lira.

La storia della poesia testimonia l’indissolubilità tra parola e musica, da Omero ai nostri giorni. Basti pensare che canto e lirica sono termini comuni alla musica e alla poesia.

Invocando Calliope nell’Iliade: Cantami, o Diva, del Pelìde Achille… il poeta Omero definito da Dante come quel segnor de l’altissimo canto che sovra li altri com’aquila vola, si fa ispirare dalla musa della poesia epica.

Durante il Medioevo il canto si rivolge a Dio e diventa preghiera collettiva. All’inizio la voce umana era l’unico strumento ammesso nelle chiese, l’unico in grado di cantare lodi al Signore e di innalzare le anime al Cielo, collegandole alla pura spiritualità. Chi canta prega due volte, diceva Sant’Agostino, sottolineando la potenza emotiva del canto e il suo potere di sublimazione. Nel Gloria e nell’Alleluja vengono amplificati sentimenti di gioia, esultanza, salvezza, potenza di Dio. Altrettanto emozionanti, anche se in modo diverso, sono il Lacrimosa e il Dies Irae di una messa funebre, pensando, ad esempio, al Requiem di Mozart e di Verdi. Sono pagine che creano sussulti profondi e ti afferrano fisicamente in modo prepotente e totale. Ho citato due esempi famosi, ma molti pezzi della liturgia sacra muovono emozioni forti, con reazioni fisiche come brividi, pelle d’oca, lacrimazione. Sono emozioni che corrono e si trasmettono in un’onda inarrestabile di persona in persona, come scosse elettriche, e ognuno è sicuro di far parte dello stesso filo attraverso il quale la corrente viaggia. Ognuno si sente empaticamente compreso dal gruppo, parte della comunità.

La bellezza della musica sta proprio nel non farci sentire soli, nel condividere emozioni e passioni con gli altri, rafforzando la comunicazione e i legami sociali. È una sorta di grammatica emotiva degli abitanti del Pianeta Terra, dotati di orecchie per ascoltare questo dono prezioso che è la musica, e di corde vocali per cantare la vita.

La musica risveglia i ricordi, ci permette di evadere dalla realtà e sognare ad occhi aperti, può essere adrenalinica, romantica, terapeutica. Infatti Salvatore Quasimodo scrive la poesia Alle fronde dei salici nel 1947 cominciando proprio con la disperazione per l’assenza del canto: E come potevamo noi cantare
con il piede straniero sopra il cuore
. Già, infatti i poeti di fronte all’orrore e al dolore della guerra i poeti non possono più cantare. Nella stessa poesia è detto: anche le nostre cetre erano appese, che richiama il Salmo 137 della Bibbia che racconta come gli ebrei si rifiutarono di cantare le lodi a Dio in terra straniera durante la cattività babilonese, appendendo le proprie cetre ai salici, alberi tradizionalmente associati al pianto e al dolore.

Perché cantando il duol si disacerba, è il messaggio del Petrarca, dal Canzoniere (Nel dolce tempo de la prima etade). O, se volete, canta che ti passa, un modo di dire molto diffuso, inciso nella parete di una dolina da un soldato della Grande Guerra.

Natale 1914: circa cinque mesi dopo lo scoppio della Prima Guerra Mondiale, sul fronte occidentale si contano già oltre un milione di caduti e feriti. Eppure nelle Fiandre si verifica un incredibile miracolo di pace e di fratellanza tra migliaia di soldati di diverse nazioni. Il 24 dicembre, nella Notte Santa di Natale, le armi tacciono, e alcuni soldati tedeschi espongono piccoli alberi di Natale illuminati oltre la trincea, come segno di pace. Su entrambe le linee del fronte per un tratto lungo circa 50 chilometri, i combattenti depongono armi ed elmetti e intonano carole natalizie. Echeggia anche il canto Stille Nacht! Heilige Nacht!, intonato da tutti i soldati.

Una canzone emblematica è Bella Ciao, antica ninna nanna che si trasforma in canto delle mondine e poi canto del partigiano, conservando intatta la melodia e con parole diverse adattate alle diverse circostanze. Questa canzone ha conservato inalterato nel tempo tutto il suo fascino, la sua freschezza e spontaneità, connotando universalmente la lotta per la libertà. Incredibilmente è la canzone italiana più famosa al mondo, ancor più di O sole mio.

Non ha importanza la provenienza di una melodia, se questa viene percepita come il contenitore perfetto per nuove parole. Negli ultimi anni per esempio è tornato attualissimo Bella ciao, trasformandosi in coro da stadio, coro da piazza (movimento delle Sardine, Greta Thunberg e i movimenti ecologisti, inno dell’indipendenza e libertà in Siria, Catalogna, Turchia, Cile…), coro da funerale (per Charlie Hebdo); è diventato anche un importante e vasto fenomeno pop, grazie ad alcuni film e alla serie tivvù La casa di carta. Consiglio l’ascolto di Bella Ciao interpretata da Goran Bregovic, Giorgio Gaber, dai Modena City Ramblers, e perché no, da Woody Allen in chiave jazz.

Durante la seconda guerra mondiale l’emittente militare tedesca di Belgrado trasmetteva ogni sera la canzone Lili Marleen. I soldati tedeschi e i loro nemici attendevano con ansia questo appuntamento serale, e per pochi minuti si verificava un miracolo: le armi tacevano. In brevissimo tempo Lili Marleen divenne la canzone più popolare tra i soldati di tutte le nazionalità. Il testo era la storia del soldato che pensa con malinconia al suo amore lontano, non proprio un testo adatto a rafforzare lo spirito di combattimento, secondo la mentalità nazista. Per questo motivo fu vietata da Goebbels, ma le richieste dei soldati tedeschi di ascoltare la canzone erano ogni sera più insistenti, e così si ripresero le trasmissioni. La prima versione, incisa nel 1938, era cantata da Lale Andersen.

Ma non solo Radio Belgrad trasmise questa canzone. L’attrice e cantante tedesca Marlene Dietrich, fuggita dai nazisti negli Stati Uniti, cantò la canzone per le truppe alleate, e con la sua voce morbida e suadente rese questa canzone famosa in tutto il mondo. Ricordiamo anche il film Lili Marleen di Fassbinder, del 1981.

Ma veniamo fenomeno dei flashmob delle ore 18 durante le prime settimane di lockdown: il repertori è variegato, si passava da Azzurro di Paolo Conte a Il cielo è sempre più blu di Rino Gaetano, da Maledetta Primavera cantata da Loretta Goggi, all’Inno di Mameli, da Napul’è di Pino Daniele a Roma Capoccia di Antonello Venditti, fino ad arrivare a Nessun Dorma, aria di Calaf dalla Turandot di Puccini, mai tanto ascoltata ed eseguita e trasformata come in questo momento. Direi che Nessun Dorma potrà in futuro simboleggiare, ricordare e denotare a pieno titolo questo periodo terribile e forse unico della storia dell’Umanità.

Su e giù per l’Italia spuntano solisti famosi, membri dei cori e delle orchestre di importanti istituzioni liriche, strumentisti talentuosi, e calcano la scena immaginaria su un tetto o una terrazza, davanti a un pubblico di palazzi, amplificando la loro esecuzione perché tutti possano ascoltarla. Oppure si riuniscono virtualmente in streaming e suonano insieme, o ancora suonano individualmente la propria parte di un brano concordato, per poi montarlo come un puzzle e diffonderlo in rete. Il potere catartico della musica funziona sempre, e in quel momento, come si dice, siamo così lontani ma così vicini, come recita il titolo del vecchio ma bellissimo film di Wim Wenders, che ha delle musiche meravigliose e non solo quelle.